Proviamo pertanto a mettere a fuoco la prima comunità cristiana. Come si può supporre, se la comunità di Gerusalemme descritta da Luca poteva vivere “mettendo tutto in comune”, questo non avveniva in assemblee di grandi numeri, ma in gruppi di persone che si ritrovavano nelle case, pur restando “in rete” con gli altri gruppi di fratelli.
Non mancavano momenti assembleari legati alla frequentazione del tempio («erano perseveranti insieme nel tempio»: At 2,46 ), ma poi la “novità cristiana” prendeva forma e calore nelle case, dove, ascoltando l’annuncio del vangelo, ancora proclamato solo oralmente insieme con la rilettura in senso cristiano dell’Antico Testamento, si “spezzava il pane” (=eucaristia) e si prendeva cibo in letizia (= fraternità, carità, condivisione). Quello che si visse a Gerusalemme, si diffuse anche tra i pagani convertiti. Basti vedere il caso di Corinto, dove, come abbiamo già visto, Paolo ebbe a lamentarsi del fatto che, nei raduni fraterni in una casa per la celebrazione dell’eucaristia, non si faceva attenzione, nel pasto condiviso, ai più poveri (cf 1Cor 11, 17-34).
I luoghi dove le prime comunità si riunivano erano appunto le “case della Chiesa”: domus Ecclesiae. Quando le chiese divennero templi, magari monumentali come le basiliche e le cattedrali, si sviluppò la gioia di sentirsi popolo, ma forse si smarrì il calore delle relazioni che il piccolo gruppo consente e favorisce. Questo calore continuò ad essere alimentato per altra via, quella del consolidarsi ed espandersi delle famiglie cristiane. L’appartenenza a famiglie stabili e numerose, a loro volta imparentate con altre famiglie, nella condivisione di una stessa cultura e di una stessa fede, dava a ciascun credente quell’identità sociale ed ecclesiale di cui aveva bisogno per non smarrirsi nelle nebbie dell’isolamento, che è invece il fenomeno odierno sempre più diffuso. La crisi della famiglia ci stimola a ritornare con convinzione allo stile delle origini.
(Domenico Sorrentino, Libro del Sinodo, n. 111)