Cerchiamo di leggere la situazione della Chiesa e della società, per chiederci che cosa il Signore si aspetta da noi.
Siamo una società in crisi. Ma la crisi non è solo un fatto negativo e problematico. Può essere occasione di crescita. Può diventare “kairòs” (termine biblico), cioè tempo di grazia.
Nella situazione di crisi in cui versa la cristianità europea, sempre più minoritaria, risalta ancor più la differenza dalla prima comunità cristiana che, ricca dei segni di Dio, cresceva per attrazione: «Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2, 47).
Ma non è forse la Pentecoste la forza permanente della Chiesa di tutti i tempi? Dobbiamo resistere alla tentazione di sentirci un esercito in rotta: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre» (Eb 13, 8).
Di fatto possiamo costatare quanta incidenza ha l’annuncio cristiano, anche nel nostro tempo, quando si recupera, come ad esempio avviene in tanti movimenti ecclesiali, lo slancio delle origini. La stessa istituzione ecclesiale è capace di profezia e di nuova attrattiva: lo è stato chiaramente al tempo del Concilio e in altri momenti degli scorsi decenni, lo vediamo oggi nell’impressionante impulso che viene alla Chiesa dal carisma di papa Francesco.
Purtroppo il modello delle nostre parrocchie fa fatica ad accogliere questi nuovi impulsi dello Spirito. Lo stesso papa Francesco nell’ Evangelii Gaudium osserva «che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione» (EG 28).
La divaricazione della società dal Vangelo si può cogliere non solo dalle statistiche della frequenza religiosa, ma anche, e forse di più, dalla secolarizzazione della vita sociale, sempre più insofferente alle espressioni religiose pubbliche, magari col nobile intento del rispetto del pluralismo religioso. Rispetto ai tempi della cristianità (la “societas christiana”), durata, per alcuni aspetti, fino a qualche decennio fa, registriamo la difficoltà crescente di essere presenti con le tradizionali espressioni popolari della fede. Si fa sempre più fatica ad accettare, in luoghi pubblici, benedizioni e preghiere. Cresce l’estraneità, se non l’ostilità, rispetto alla presenza di simboli religiosi – crocifissi, presepi, ecc. – nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici pubblici. È vero che permangono anche momenti di accoglienza che ci possono dare talvolta la sensazione di una tenuta del clima religioso tradizionale. Ne ho fatto anch’io gioiosa esperienza soprattutto nella Visita pastorale. Ci fa gioco poi l’allungamento della vita, in forza del quale le generazioni nate ed educate in un clima cristiano continuano a coprire – almeno nelle grandi occasioni, ma ovviamente sempre di meno – i banchi della chiesa.
Quanto durerà? Se infatti approfondiamo la situazione, partendo dai giovani e dalle famiglie giovani, il panorama cambia decisamente. Si è parlato, a tal proposito, della “prima generazione incredula”. Al di là della pratica religiosa esplicita, la distanza crescente dal Vangelo si vede soprattutto sul piano del costume. Il test più evidente è fornito dalla crisi del matrimonio e della famiglia e dalla progressiva erosione dei principi morali concernenti la vita umana e la sessualità. Si potrebbero additare altri campi, sul versante della giustizia e della vita sociale. Per non parlare delle tendenze più elitarie, ma pur sempre con influenza sulla massa, che vanno dall’ateismo “gridato” all’agnosticismo strisciante fino a forme di vaga spiritualità di tipo sincretistico, refrattarie a precise confessioni di fede, e in particolare a quella cristiana.
In questo orizzonte di transizione culturale, etica e religiosa, la parrocchia, anche se non da sola (si pensi ai movimenti ecclesiali), rimane l’irrinunciabile postazione missionaria della Chiesa. Essa ha un grande compito da svolgere. Si deve però rinnovare, se vuole stare all’altezza di queste sfide. Come hanno detto i vescovi italiani, «se prima il territorio viveva all’ombra del campanile, oggi è la parrocchia a doversi situare nei diversi “territori” di vita della gente, per capirne i problemi e le possibilità». Bisogna, insomma, ritornare nelle strade e nelle case. Il momento della grande comunità convocata in chiesa in stile assembleare rimane un appuntamento valido e necessario, ma, perché non sia illusorio e fragile, deve passare attraverso la paziente ritessitura della vita cristiana nei rapporti caldi tra le persone, a partire dal recupero della famiglia.
La Chiesa primitiva si costruì proprio con questo stile. Fu il segreto della sua sorprendente espansione: «Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2, 47). Nel giro di tre secoli, passando attraverso il crogiuolo delle persecuzioni, avrebbe costretto alla resa quell’impero che aveva, con sentenza di Ponzio Pilato. messo a morte il suo fondatore. Quale fu il segreto di questo fenomeno? Come fu possibile a un pugno di discepoli, che annunciavano «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), dare la “scalata” a un impero? Credo che, posta l’azione dello Spirito Santo, ciò sia da ricondurre in gran parte allo stile, e al metodo, inaugurati da Gesù e dalla comunità cristiana primitiva: stile di famiglia intorno al vangelo.
(Domenico Sorrentino, Tu sei la nostra gioia! Libro del Sinodo, Assisi, 2016, nn. 107-111)